Fibromialgia

Ci sono cinque cose che nessun monaco, nessun brahmano, nessun Dio, neancheil demone tentatore (Mara) e neppure Brahma, né alcun essere al mondo possono fare.Quali sono queste cinque cose? Che colui che è soggetto ad invecchiamento non invecchi;che colui che è soggetto ad infermità non si ammali; che colui che è soggetto amorte non muoia; che quanto è soggetto a decadimento non decada; che quanto èsoggetto a passare non passi>>. (Pratityasamutpada ,AN III,60)

La malattia

La fibromialgia è una sindrome di dolore muscolare cronico definita dall’American College of Rheumatology come “una condizione di dolore cronico diffuso con caratteristici tender points (punti dolenti alla pressione)”. La stessa società ne ha definito i criteri diagnostici per un efficace riconoscimento. Nel 1992 la fibromialgia è stata riconosciuta come malattia nosograficamente autonoma dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità  riconosciuta come malattia  nel1994 dall’International Association of the Study of Pain (IASP). All’esame fisico, è spesso associata con una varietà di sintomi o disfunzioni. In Italia ne soffrono quasi due milioni di persone, soprattutto donne. Dolore vertebrale, alle spalle, alla nuca, agli arti, sia superiori che inferiori. Scarsa qualità del sonno con difficoltà ad addormentarsi e frequenti risvegli che comportano la difficoltà a riposare adeguatamente. Ipersensibilità al caldo, al freddo, al contatto con certi tessuti o superficie, affaticamento cronico e svariati disturbi dell’umore. Difficoltà a condurre una vita piena e soddisfacente con costanti limitazioni e rinunce, sia lavorative che socio-relazionali. E’ una sintesi approssimativa di quello che comporta soffrire di fibromialgia, una sindrome per la quale una causa certa non è ancora stata scoperta, nota anche come “Malattia di Atlantide”, nella sua variante che provoca tremendi dolori alla nuca, dal nome del gigante ribelle a Giove che fu condannato a reggere il mondo sulle spalle. Nello specifico, si tratta di una sindrome muscolo-scheletrica ad andamento cronico che colpisce soprattutto l’apparato muscolare ed alcune strutture ossee, come i tendini, provocando una sintomatologia che si caratterizza per dolore diffuso ed una iper-sensibilità sensoriale. Ad una prima analisi dei sintomi, potrebbe apparire come una patologia articolare o addirittura artrite, ma di solito non si tratta di alcuna di queste o di qualsiasi altra condizione. Una recente definizione la descrive come: “una sindrome da sensibilizzazione centrale, caratterizzata da disfunzione dei neurocircuiti, che coinvolgono la percezione, la trasmissione e la processazione degli stimoli nocicettivi afferenti, con la prevalente manifestazione di dolore a livello dell’apparato locomotore”. Nel 1996 Turk e collaboratori avevano differenziati diversi“subset” di pazienti differenziabili in base a caratteristiche cognitive, psicosociali e riconducibili a tre tipologie di pazienti:

•    Il primo gruppo, (51,5%); comprende la maggior parte dei pazienti che si rivolgono al medico di medicina generale a causa del dolore diffuso e che, solitamente, rispondono maggiormente al trattamento;

•    Il secondo gruppo (32%), è caratterizzato da alti livelli di ansia, depressione e catastrofismo, da scarsa capacità di autocontrollo del dolore e da elevata dolorabilità alla digito pressione;

•    Il terzo gruppo (16,5%), è invece caratterizzato da pazienti con bassi livelli di ansia, depressione e catastrofismo ma con soglia nocicettiva particolarmente bassa.

La difficoltà a porre una diagnosi certa di fibromialgia ha determinato per decenni una condizione di grande incertezza, gli stessi malati, vittime di atteggiamenti quali superficialità, dubbiosità rispetto alla reale presenza o meno del disturbo, sono spesso state additate come nevrotiche o addirittura dei simulatori. Solo negli ultimi 10-15 anni si è potuto approfondire la conoscenza di questa malattia, che in Italia interessa circa 1.5-2 milioni di persone, soprattutto di sesso femminile (alcuni ricercatori sono tuttavia convinti che, a causa delle difficoltà di diagnosi, sia anche più diffusa). Non esiste ad oggi una cura per guarire dalla fibromialgia, ma i medici hanno a disposizione molteplici farmaci e opzioni terapeutiche per aiutare a controllare e gestire i sintomi, tra cui anche l’esercizio fisico, le tecniche di rilassamento e riduzione dello stress.

Terapia farmacologica

Possiamo distinguere classi di farmaci utilizzate per il trattamento della fibromialgia. Nel trattamento del dolore cronico e della sintomatologia più ampia connessa al disturbo, sono tre i farmaci approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) per il trattamento della fibromialgia: Pregablin, Duloxetina, Milnacipran. I farmaci Miorilassanti agiscono a livello periferico riducendo la contrattura e con essa il dolore; gli analgesici vengono scleti per ridurre l'infiammazione. Sia la benzodiazepine che gli antidepressivi, soprattutto triciclici, in associazione con i farmaci miorilassanti, svolgono una duplice funzione: regolatori dell'umore e azione diretta su alcuni dei meccanismi centrali della stessa malattia fibromialgica. Utili contro l'infiammazione i cosiddetti FANS ( farmaci antinfiammatori non steroidei) ampiamente utilizzati per alleviare il dolore, ridurre l'infiammazione, abbassare una temeperatura corporea elevata.

Psicoterapia cognitivo comportamentale della fibromialgia

La fibromialgia, al pari di numerose altre condizioni croniche, ha un impatto significativo sulla qualità della vita delle persone che ne soffrono. Molto spesso, chi ne soffre sviluppa specifiche convinzioni rispetto alle conseguenze e all’influenza che il dolore può avere sulla loro vita. E’ questo l’ambito nel quale gli approcci terapeutici non farmacologici dimostrano maggiore efficacia. Di fronte ad un dolore persistente, pervasivo e ricorrente, la nostra mente attiva specifiche strategie di coping (to cope=gestione del problema) ma non sempre risultano funzionali ai reali scopi ed obiettivi della persona. Quando le sensazioni fisiche raggiungono e superano una certa soglia esse sono percepite dal nostro cervello come pericolose, quindi è necessario far qualcosa affinché possano cessare o ridursi significativamente. Secondo l’approccio psicologico di matrice cognitivo comportamentale, soprattutto nella sua accezione di terza generazione (ACT – Acceptance and CommitmentTherapy) gli esseri umani, nel tentativo di eliminare dolore e sofferenza dalle loro esperienze, adottano strategie che, a lungo termine, limitano fortemente le loro vite. Secondo la prospettiva dell’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello naturalmente connesso alla vita di tutte le persone, legato prevalentemente alla sfera biologica. È fuori dal nostro controllo, non possiamo scegliere, pertanto, quando e come liberarcene. Parliamo di dolore“pulito” anche quando siamo di fronte ad una forte sofferenza emotiva, dovuta per esempio ad un lutto o ad ogni altro evento che abbia “oggettivamente” il potere di provocare dolore e sofferenza. Il dolore sporco, invece, è quel tipo di dolore, o meglio “sofferenza”, che proviamo nel tentativo di eliminare o contrastare il dolore pulito; la conseguenza di quelle strategie mentali(mediate dal linguaggio) attraverso cui tentiamo di capire il “perché” di quel dolore, le sue “conseguenze” a lungo termine ed il suo “impatto” sul nostro benessere. Di fronte a questi interrogativi, molto spesso, la nostra mente descrive scenari e circostanze dolorose da sostenere. Immaginiamo un futuro in cui il nostro benessere è seriamente compromesso ed in cui il dolore rappresenta un serio ostacolo alla realizzazione dei nostri scopi. Questi pensieri, e non il dolore di per sé, rappresentano l’innesco per il “dolore sporco”. La conseguenza del tentativo di fuga dagli eventi interni spiacevoli(dolore, sensazioni, pensieri) determina paradossalmente un nuovo set di sentimenti dolorosi.  Tutte le terapie farmacologiche (quando efficaci) possono agire esclusivamente sulla componente di dolore pulito e non su quella di dolore sporco. L’ approccio dell’ACT  (Acceptance and Commitment Therapy) si propone non tanto di eliminare il dolore (non perché non voglia ma perché impossibile) quanto piuttosto di cambiare rapporto con l’esperienza dolorosa.Quando entriamo in lotta contro il dolore, quando cerchiamo di capirlo, di attribuirlo a cause specifiche o responsabilità, stiamo inevitabilmente scegliendo di porre la nostra vita in stand by, ponendola al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT è quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperienziale per quello che sono, e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie. L’ACT che prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: “cambia atteggiamento verso  quello che è al di fuori del nostro controllo personale, come può appunto essere il dolore, impegnati attivamente nel fare qualunque cosa possa migliorare la qualità della tua vita.  sottolinea l’importanza di accettare piuttosto che tentare di controllare esperienze e pensieri negativi”(Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999, 2012). “Accettazione” comporta“esposizione” al dolore così come viene sperimentato senza tentativi di evitarlo o controllarlo e persistere in attività “sane” anche quando il dolore è presente. Gli Autori definiscono l’accettazione del dolore cronico come una disponibilità attiva di intraprendere attività significative nella vita senza tener conto delle sensazioni, dei pensieri e dei sentimenti collegati al dolore, sensazioni che altrimenti risultano precludenti le attività stesse(McCracken et al., 2004). Il nucleo della proposta consiste nel non attivarsi in violenti tentativi non necessari di fronteggiare le esperienze personali, tentativi che spesso hanno come effetto l’intensificare le componenti aversive delle esperienze stesse, pervadendo con influenze distruttive tutta la vita. Lo scopo dell’ACT è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta. Da un punto di vista prettamente cognitivo e neurologico, è molto probabile che in presenza di una forte sensazione o dolore prolungato la nostra attenzione venga selettivamente dirottata proprio su quelle sensazioni. Riconoscendole come pericolose e dolorose, la nostra mente attiva un efficace sistema di allarme che media il rilascio di catecolamine (noradrenalina e serotonina), neurotrasmettitori che mediano l’attivazione di emozioni quali la paura e l’ansia. In presenza di queste emozioni tendiamo ad attribuire a quelle sensazioni un valore di pericolo e, di conseguenza, sviluppiamo la convinzione che esse siano da ostacolo alla nostra felicità, ai nostri scopi, alle nostre attività:

“Non sarò mai felice se il dolore non cesserà”

“Non potrò più fare qualcosa senza questo dolore e sarò sempre sofferente”

“Dovrò sempre limitarmi”

“E’ inutile uscire se tanto dovrò stare male”

“La maggior parte delle persone è felice, perché io no?”

Secondo l’ACT, quando questi pensieri si presentano nella nostra mente, tendiamo ad assumere nei loro confronti un atteggiamento definito di “fusione psicologica”. In tal senso, tendiamo a gestire la realtà come se il contenuto dei nostri pensieri fosse reale, come se le circostanze che immaginiamo dovessero realmente aver luogo. Se assumiamo come reale l’idea che“uscendo starò male, non riuscirò a godere della presenza dei miei amici” è molto probabile che possa sviluppare uno stato di disagio e di conseguenza rinunciare ad uscire. Questo atteggiamento, conseguente spesso allo stato di “fusione psicologica” determina l’ “evitamento esperienziale”.Questo atteggiamento descrive il modo in cui proviamo a gestire il dolore, soprattutto quando le persone lo associano a certe situazioni e circostanze: “se esco starò male”, di conseguenza rinuncio ad uscire (evitamento) nel tentativo di non far emergere il dolore.Anche se, probabilmente, il dolore non compare nell’immediato, a lungo termine tenderemo a rinunciare molto spesso a tutte quelle circostanze che, anche se a rischio di provare intense sensazioni (fuori dal nostro controllo),contribuirebbero a dare valore alla nostra vita, anche in presenza di sensazioni che ne rendono difficile la gestione. Per mezzo dell’evitamento esperienziale, molte persone che soffrono di condizioni croniche come la fibromialgia, nel tentativo di tenere a bada il dolore e le sensazioni, rinunciano ad aspetti rilevanti come le amicizie, le relazioni, il tempo libero ed il divertimento, il lavoro e la formazione. Questa ulteriore condizione, associata allo “stress” causato dal dolore, concorre alla comparsa di uno stato ansioso depressivo. In queste condizioni, si struttura e consolida un circolo vizioso che mantiene lo stato di disagio e sofferenza. Le persone che riducono drasticamente la partecipazione ad ambiti ed attività prima importanti sviluppano, di solito, uno stato ansioso depressivo e la comparsa di ulteriori pensieri negativi a carattere svalutativo e catastrofico. Di conseguenza, le probabilità di riprendere la partecipazione alle medesime attività si riduce ulteriormente diventando un repertorio stabile ed inflessibile. Il dolore, inoltre, in presenza di ideazioni negative ed emozioni intense, viene percepito come più intenso ed incessante promuovendo la convinzione che la propria convinzione stia gradualmente peggiorando. Questo quadro, per quanto possa apparire realistico e tangibile, è regolato esclusivamente da processi mentali e non ha riscontri all’esterno.  E’ vero che agire il dolore non si riduce come si vorrebbe ma spesso la sua intensità è meno invasiva di come si “pensa”. Gli attuali standard di psicoterapia non si muovono direttamente verso la possibilità di ridurre il dolore, piuttosto promuovono l’ampliamento del repertorio comportamentale anche in presenza di un vissuto interiore fatto di sensazioni intense e pensieri negativi. In tal modo si ottiene l’immediata rottura del circolo vizioso e si ristabilisce un’adeguata partecipazione ai contesti di vita più significativi. In secondo luogo si promuovono la costruzione di un atteggiamento diverso verso il dolore, non più di lotta ed evitamento, non più mosso dal tentativo di comprendere o monitorare, viene costruita piuttosto la ben più funzionale capacità di stare con tutto ciò che è fuori del nostro controllo. Questo atteggiamento viene definito di acceptance e descrive appunto la capacità di stare con qualsiasi sensazione rinunciando ad ogni atteggiamento di lotta. In tal modo si consente alla nostra mente di scoprire che quello stesso dolore, prima intollerabile, se lasciato “decantare” nel tempo, esso stesso cambia e, perché no, si riduce. Una tecnica molto efficace, in tal senso, è la mindfulness, una pratica di regolazione volontaria dei processi attentivi attraverso cui si allena la capacitò di notare altro piuttosto che di fuggire da ciò che non piace. Gli studi che hanno tentato di valutare l’efficacia della mindfulness nelle sindromi fibromialgiche hanno dimostrato una notevole efficacia nel ridurre il livelli di stress associati al dolore, nel promuovere la ripresa di un adeguato repertorio comportamentale, più funzionale agli standard che ogni persona desidera per la propria vita.


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