L’approccio cognitivo comportamentale classico ha avuto un impatto strabiliante nella cura della malattia mentale. Fino a qualche decennio fa un gran numero di disturbi psicologici erano ritenuti appannaggio esclusivamente della psichiatria e dei trattamenti farmacologici, spesso all’interno di istituti residenziali di salute mentale (manicomi). Psicosi, stati maniacali, disturbi ossessivi compulsivi e le più svariate forme di esaurimento emotivo hanno rappresentato pertanto uno stigma sociale difficile da combattere efficacemente. I moderni approcci di psicoterapia, su tutti l’approccio cognitivo comportamentale , hanno restituito dignità e valore alla persona all’intero nucleo familiare e socio relazionale in cui esso era inserito. Con l’avvento dell’approccio cognitivo comportamentale si sono aperti nuovi e più efficaci scenari di cura. Complice la chiusura degli istituti mentali, l’individuo ha potuto seguire percorsi terapeutici anche fuori da essi, mantenendosi a contatto con il proprio contesto di vita, senza esserne marginalizzato. Ovviamente non possono essere trascurati i paralleli traguardi della medicina in campo farmacologico, anche quest’aspetto è stato rilevante a garantire un nuovo approccio al trattamento risolutivo del disagio psicologico, soprattutto quello a maggiore prevalenza organica. Nonostante le terapie cognitivo comportamentali abbiano dominato la scena clinica negli ultimi decenni, anche questo approccio non è stato completamente libero da limiti e incertezze. Entrando nello specifico delle tecniche e del modello, salta subito all’occhio come fosse centrale, nella prassi clinica, agire un nuovo modo di relazionarsi ai contenuti del pensiero e del proprio dialogo interiore: dopo aver posto attenzione ai contenuti dei pensieri automatici negativi, spesso difficili da individuare, il terapeuta proponeva delle tecniche specifiche (dialogo socratico, ristrutturazione cognitiva, disputa razionale) al fine di riconoscere gli errori di ragionamenti presenti in quella convinzione individuando poi nuove idee e convinzioni che fossero più obiettive e rispecchiassero il carattere di razionalità e probabilità.
Questo nuovo repertorio d’ idee e convinzioni , assieme ad altre tecniche di matrice comportamentale, permettono una risoluzione netta dei sintomi iniziali e quindi del disagio psichico. Realizzando però delle revisioni e dei follow up successivi al termine delle terapia, concluse con una remissione soddisfacente dei sintomi, ci si rese conto che quelle convinzioni e pensieri spesso tornavano e favorivano la ricomparsa della sintomatologia iniziale, in altre circostanze il tentativo di discutere e modificare le proprie idee peggiorava la sintomatologia iniziale rendendo difficile la collaborazione al trattamento . Ecco che quindi entrano in gioco uno sparuto numero di terapeuti e non che iniziarono a porsi la stessa domanda: “ Perché questo approccio non è efficace in tutti i disturbi e i suoi effetti a volte non si mantengono nel tempo ” La risposta che riuscirono ad individuare fu semplice ma dai risvolti notevoli. Nel momento in cui l’individuo pone attenzione ai contenuti dei propri pensieri e cerca di modificarli , discutendoli , sta ponendo le basi per un sicuro fallimento. Il presupposto fondamentale, infatti, afferma che qualsiasi aspetto della nostra esperienza interna (emozioni, pensieri, sensazioni), per sua natura, non può essere controllato, etichettato, evitato, discusso efficacemente senza che questo abbia degli “strascichi” sul nostro stato emotivo . L’essere umano, però, non è consapevole di tali limiti del linguaggio e del pensiero, anzi se sfrutta le “potenzialità” esercitando questo illusorio tentativo di controllo nei confronti di tutte quelleidee e pensieri che animano la nostra mente e generano sofferenza. Il disagio psichico sarebbe frutto di questo atteggiamento meglio definito come inflessibiltià cognitiva. A partire da questa consapevolezza, gli psicologi di matrice cognitiva comportamentale apportarono delle modifiche all’impostazione originaria dando vita ad un nuovo modello, l’Acceptance and Commitment Therapy. Negli ultimi 25 anni gli studi di efficacia pubblicati hanno dimostrato senza ombra di dubbio la solidità e l’approccio di questo nuovo modello permettendo quindi di rendere l’originario approccio cognitivo comportamentale ancora più solido e superando i limiti iniziali.
Approccio cognitivo comportamentale di terza generazione
Il termine terza generazione indica l’ultima e attuale fase di un susseguirsi di approcci e modelli che prendono il via a partire dal modello di prima generazione, il comportamentismo, per poi passare alla seconda generazione con il modello cognitivo comportamentale classico ed infine giungere ai modelli terapeutici della terza onda o terza generazione. A partire dagli anni 80, un crescente numero di nuovi trattamenti, e definiti da Hayes appunto di terza generazione, si presentano alla scena clinica scientifica. Tre sono i filoni, diversi per contenuti e metodi, ma accomunati da alcune critiche alla seconda generazione CBT (Cognitive Behavioural Therapy): del primo fanno parte l’Acceptanceand Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Bahavior Therapy (DBT), il Cognitive Behavioural Analysis System of Psychotherapy (CBASP), la Functional Analytic Psychotherapy (FAP), e infine l’ Integrative Behavioural Couple Therapy (IBCT). Tutti questi approcci tendono ad enfatizzare strategie di cambiamento su basi contestualistiche ed esperienziali, in aggiunta ad aspetti più didattici. Piuttosto che focalizzarsi sulla diminuzione dei problemi (che ovviamente è una conseguenza implicita al trattamento) tendono a favorire la costruzione di un repertorio comportamentale ampio, flessibile ed efficace, e cercano di perseguire obiettivi che siano importanti sia per il miglioramento clinico che per la vita della persona (Hayes, Luoma, Bond, Masuda, & Lillis, 2006). Nel secondo filone possiamo annoverare come terapie di “terza generazione” anche la Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) e la Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) che si caratterizzano per una considerazione della mindfulness come terapia in sé basata sulla meditazione, e non come uno dei vari processi del cambiamento psicologico. Nel terzo filone va collocata la terapia metacognitiva di Wells, secondo la quale il lavoro terapeutico deve salire di un piano, passando dai classici interventi di cambiamento cognitivo a interventi di modificazione metacognitiva. Le ricerche hanno messo a confronto ACT e CBT tradizionale, a livello di mediatori di cambiamento, hanno mostrato come l’ ACT sia in grado di produrre effetti positivi tanto quanto la CBT, o addirittura in alcuni casi migliori (Ost, 2008, 2014; Powers, ZumVordeSiveVording, & Emmelkamp, 2009).